SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo VI (II parte)

DAL "PUNTO DI VISTA" SETTECENTESCO AL "PANORAMA" ROMANTICO

Pare non si possa dare giustificazione normativa migliore dell'impossibilità razionalistica a qualcosa come il panorama romantico.

Un innegabile esempio che vale la pena di segnalare è uno squarcio torinese dell'Emilio di Rousseau, che risale al 1762:

«Era d'estate. Ci levammo sul far del giorno. Mi condusse fuori città su un'alta collina, sotto la quale scorreva il Po, di cui si vedeva il corso lungo le fertili rive ch'esso bagna. In lontananza, la catena immensa delle Alpi coronava il paesaggio. I raggi del sole nascente radevano già la pianura e, nel proiettare sui campi con lunghe ombre gli alberi, i rilievi, le case, arricchivano con mille variazioni di luce il più bel quadro che possa colpire occhio umano. Si sarebbe detto che la natura dispiegasse sotto i nostri occhi tutta la sua magnificenza» (125).

E' comunque vero che il "sistema" di Montesquieu, di "costruirsi" un punto alto da cui abbracciare con lo sguardo l'intera città, resterà a lungo il sistema di tutti. Goethe, per esempio, "gode perfettamente dall'Osservatorio" Padova, descrive tre volte Venezia (una dal ponte di Rialto e due dal campanile di San Marco), sale sul campanile della chiesa parrocchiale persino a Cento, sale sulla torre degli Asinelli a Bologna, e Roma la affronta dall'alto innumerevoli volte: memorabili quelle dalla cupola di San Pietro e dalla Colonna Traiana (126). E Chateaubriand, dal canto suo, a Roma quasi si diletta a sovrapporre sulla pagina, contemplando la città da Trinità dei Monti, i due punti di vista "artefatti" del Settecento:

«Dall'alto di Trinità del monte, i campanili e gli edifici lontani sembrano come gli abbozzi cancellati d'un pittore o (n.d.a.) come le coste ineguali viste dal mare sopra una nave ancorata». (127).

Ma al di là della pura e semplice "retorica" dell'osservazione da un punto elevato, con Chateaubrinand e già con Goethe, tutto è cambiato, e lo è, forse, proprio a partire da Rousseau, che pure finora conoscevamo solo in un momento ancora "settecentesco" (relativo all'urbanistica torinese). "Era d'estate. Ci levammo sul far del giorno", comincia invece, stavolta, Rousseau. Così, la città, che nel Settecento era rimasta circoscritta al suo ruolo di testo, e solo in quanto tale aveva interessato gli impassibili osservatori, viene finalmente inserita in un contesto, in cui entreranno, via via, l'ora del giorno e l'orizzonte, il variare dei colori, la storia della comunità ch'essa costituisce, ed infine, l'osservatore stesso con i suoi stati d'animo, le sue idee, i suoi rapporti: non più, dunque, nella posizione d'un soggetto che osserva un oggetto, ma in quella di chi si avverte egli medesimo come qualcosa di coinvolto in un più grande contesto, che tutto include.

Non più dunque, semplici, esangui geometrizzazioni, ma corposità di linguaggio letterario: questo è il panorama romantico. Lo Stendhal del 1828 ha due passi, in proposito, che vale la pena ricordare. Uno è relativo alla vista di Roma dal Gianicolo.

«Oggi, per vedere la città di Roma e la tomba del Tasso, siamo saliti a Sant'Onofrio: vista magnifica; di lassù abbiamo vista dall'altra parte di Roma il palazzo di Monte Cavallo, dove poi siamo andati...» (e più avanti): «Questa mattina, di buon'ora, prima che il sole fosse alto, siamo saliti al convento di Sant'Onofrio (sul Gianicolo, vicino San Pietro). Quando si sentì prossimo alla morte, Tasso si fece trasportare qui; ebbe ragione: è sicuramente uno dei più bei posti del mondo per morire. La veduta così estesa e così bella che di quassù si ha di Roma, questa città di tombe e di ricordi, deve rendere meno penoso quest'ultimo passo per distaccarsi dalle cose della terra. La veduta  che si ha da questo convento è senza dubbio una delle più belle del mondo; noi eravamo reduci da Napoli e da Siracusa, e non ci pare in questo momento che alcun'altra veduta possa essere preferita a questa». (128).

L'altro passo è, addirittura, un prontuario dei vari "punti alti" da cui sorprendere la città:

«Se non potete vedere Roma che una volta, cercate di formarvi rapidamente un'idea precisa delle undici colline sulle quali si estendono le case della Roma moderna e le vigne coperte da rovine della Roma antica. Partite dalla Porta del Popolo, vicino al Tevere; seguite la strada fuori le mura, e fate il giro della città fino al monte Testaccio (formato di cocci rotti); salite al Priorato di Malta, per godere d'una vista deliziosa; il giorno successivo, uscite dalle mura per porta del Vaticano, e rientratevi dalla parte opposta al Priorato di Malta; il terzo giorno, salite a Sant'Onofrio e alla villa Lante. Godete di questa vista magnifica che si estende ai vostri piedi, e voi avrete una cognizione esatta delle colline romane. Ma se voi volete ritornare a Roma e godervi come la prima volta, non cercate questa idea esatta, al contrario, fuggitela...» (129).

L'ultima affermazione specialmente, ci dice che, rispetto al "sistema" di osservazione di Montesquieu e, in definitiva, di tutto il razionalismo settecentesco, siamo ormai agli antipodi.

Così, non potrà non suonare in certo senso sorprendente un aforismo di Nietzsche, che parrebbe resuscitare, nell'Ottocento orami tardo, una sensibilità chiaramente settecentesca:

«Questa contrada possiede linee significative per un quadro, ma io non posso trovare la formula per esprimerle, essa, nel suo complesso, resta per me inafferrabile. Io osservo che tutti i paesaggi che mi piacciono durevolmente hanno, fra molteplicità di ogni genere, un semplice e geometrico schema di linee. Senza un tale substrato matematico, nessuna contrada dà una gioia artistica. E forse questa regola permette un'applicazione simbolica all'uomo» (130).

Che è affermazione senz'altro singolare, e che, anche se tutto sommato episodica, non per questo, andrebbe trascurata, non solo da una storia del gusto urbano in particolare, ma anche da uno studio sulla filosofia nietzscheana in generale.


(125) Si tratta di una pagina dell'Emilio, ricordata anche da LUIGI FIRPO, art. cit. p.88.

(126) JOHANN WOLFGANG GOETHE, op. cit., pp., rispettivamente, 490, 505, 532, 544 e 548, e 650.

(127) CHATEAUBRIAND, op. cit., p. 40. Una descrizione di Roma da questo stesso punto la darà nel 1827 anche STENDHAL (Promenades dans Rome, cit., vol. I, p.18).

(128) STENDHAL, Promenades dans Rome, cit., vol. I, p.16

(129) Ibid. vol. I, p. 207

(130) FRIEDRICH NIETZSCHE, Quali contrade rallegrano durevolmente, in Il viandante e la sua ombra, cit., p. 224.


Theorèin - Novembre 2006